Frutto della grande passione di Giorgio Franchetti per i marmi antichi e le armonie musicali, il mosaico dell’atrio in «opus sectile», ispirato ai pavimenti cosmateschi e agli esempi della basilica marciana, costò al barone anni di impegno e dedizione. All’opera lavorò personalmente, a più riprese, sin dai primi interventi di restauro ottocenteschi attuati sul palazzo, prodigandosi con entusiasmo e tenacia nella faticosa impresa fino alla morte nel 1922.
Vera e propria «installazione», autonoma e originale, l’idea di riambientare una sontuosa pavimentazione musiva nel portico da basso di un edificio privato affacciato sul Canal Grande, ben testimonia dello spirito con cui il barone affrontava il delicato problema del «restauro d’arte», sempre sottilmente in bilico tra impulso filologico e slancio creativo, tra ricostruzione del preesistente e creazione di un’opera d’arte nuova, capace di trasmettere ai posteri una sua personale e soggettiva idea di «veneziana» bellezza.
Per realizzare l’opera Franchetti non si accontentò di marmi e pietre di cavatura moderna, ma si procurò marmi antichi, che fece arrivare soprattutto da Roma, privilegiando i più rari e preziosi.
Ricorda Ugo Ojetti: «Voleva che visitaste la sua Ca’ d’Oro con lui, solo con lui, vi conduceva dappertutto, dai merli al portego, si metteva in ginocchio a mostrarvi con le sue mani come s’avevano da commettere i mosaici dell’androne, con le tessere ineguali «come a San Marco, bada, come a San Marco», vi spiegava la tecnica del mosaico da Roma a Ravenna, da Salonicco a Palermo…».